Oggi esaminiamo una questione spinosa: la responsabilità etica e morale degli influencer e dei Social Media Manager.
La tragica vicenda della ragazza morta a Roma, a seguito di un intervento di chirurgia plastica per apparenti complicazioni legate all'anestesia, impone interrogativi urgenti e una riflessione profonda sul ruolo degli operatori del mondo social. Le indagini sono ancora in corso, ma ciò che emerge dalle cronache è già un quadro inquietante.
Una giovane di oggi decide di cambiare il proprio aspetto e si affida a una clinica trovata sui social. Questa clinica, come si è poi scoperto, operava senza le necessarie autorizzazioni e senza adeguate misure di sicurezza. Inoltre, si parla di interventi pagati in nero con sconti allettanti: un sistema opaco che ha fatto leva sulla vulnerabilità di chi cercava risposte rapide e certezze immediate.
Ma possiamo davvero ignorare il ruolo che i social hanno avuto in questa tragedia? È difficile sostenere che la decisione della ragazza non sia stata influenzata da quelle immagini perfette e irraggiungibili che, giorno dopo giorno, ci vendono un ideale di bellezza. Un ideale che promette felicità e successo, ma che si rivela spesso un miraggio digitale, costruito con filtri e attente strategie di marketing.
In questi giorni, ad esempio, spopolano sui social una ragazza che sostiene come la bellezza consenta di vivere senza studiare né lavorare, e altre giovani che girano l’Italia promuovendo un noto gelato con allusioni che richiamano tutt'altro che il refrigerio estivo. Su questa vicenda sono peraltro in corso approfondimenti. Sono comunque messaggi tossici, che trasformano il corpo in merce e l’apparenza nell’unico valore riconosciuto.
E poi ci sono i Social Media Manager. Se quella clinica si è avvalsa di un professionista per promuovere i propri servizi, quale responsabilità ha questa figura?
Il compito di un buon Social Media Manager non è solo riempire un feed di immagini accattivanti, ma dovrebbe essere quello di verificare che l’attività rappresentata sia legale, autorizzata e sicura. Non farlo significa chiudere gli occhi di fronte ai rischi, tradendo il principio fondamentale dell’etica professionale. Lo stesso vale per influencer e creator: chi promuove prodotti o servizi deve assumersi la responsabilità morale delle scelte che consiglia ai propri follower che, ricordiamolo, sono spesso giovanissimi, non maturi, influenzabili.
Ma il problema non si limita ai singoli operatori. Le piattaforme social stesse hanno un ruolo centrale in questa dinamica. I loro algoritmi premiano i contenuti più scioccanti, provocatori o invidiabili. Così vediamo ventenni sfidarsi a colpi di outfit e accessori dal valore pari a un mutuo ventennale per molte famiglie. Viene naturale chiedersi: dove trovano i soldi? E, ancora più inquietante, quale messaggio trasmettono? Che il valore di una persona si misura dal prezzo delle scarpe che indossa? Che l’ostentazione è sinonimo di successo?
Non possiamo, però, limitarci a puntare il dito contro influencer o Social Media Manager. La colpa non è solo loro. È anche nostra, del pubblico che alimenta questa macchina a colpi di like e visualizzazioni; e dei genitori che restano a guardare.
Perché il problema, alla fine, è culturale. Chi ha insegnato a quella ragazza siciliana che la felicità dipendeva dal conformarsi a un ideale di bellezza? Chi le ha fatto credere che per essere accettata doveva somigliare a un’immagine su Instagram? Il sistema, certo; ma anche gli adulti che avrebbero dovuto proteggerla e guidarla. Ma hanno avallato una scelta senza i dovuti controlli.
Molti genitori, purtroppo, mettono in mano ai figli uno smartphone senza preoccuparsi di insegnare loro come usarlo. Preferiscono il silenzio di un ragazzo incollato allo schermo al compito, più impegnativo, di spiegare il valore dell’autenticità. Spesso, sono loro stessi i primi a cedere al fascino di quel mondo illusorio, incapaci di offrire esempi concreti di senso critico.
L’educazione, come la responsabilità, inizia in casa. E finché non ci guarderemo davvero allo specchio – senza filtri – continueremo a costruire una società dove l’apparenza vale più della sostanza. Una società in cui tragedie come questa non saranno che l’ennesimo capitolo di un libro già visto.
Iniziamo da chi ha trovato lavoro grazie ai social.
Chi lavora sui social, chi promuove un’attività, una persona o un’immagine, dovrebbe iniziare a porsi una sua etica. Altrimenti, si diventa complici.
Avv. Gianni Dell'Aiuto
ed etica professionale